un log di viaggio

“Io Che la Guerra l’ho vista da Vicino”

La nostra generazione non conosce la guerra, non sa cosa significa, abbiamo avuto l’incredibile privilegio di vivere in un periodo di pace in europa, fino ad ora.

Mentre il fantasma della guerra si ripropone mi è tornato in mente un vecchio articolo che pubblicai nel 2012 sul mio vecchio blog. Il sito non esiste più online, si chiamava “Aria Fredda” come il racconto di Lovecraft. Ve lo ripropongo perchè mi sembra tornato di attualità e vorrei aiutasse a riflettere su alcuni aspetti della guerra che alla tv o sui giornali raccontano purtroppo raramente. Le persone sono le vittime.

Titolo Originale:

“Mè, che la guérà l’ò ìsta dè isì” – Postato su Aria Fredda il 12/10/2012

Mia Nonna Iole mi parla spesso di suo padre, si chiamava Lorenzo; nel ’39 è stato mandato al fronte orientale, circa 6 mesi prima che nascesse sua figlia.
Quel giorno, per ogni padre speciale come pochi nella vita, era in trincea, insieme alle forze dell’asse alleate con la Germania contro i Russi, nell’estate dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Non l’ha vista nascere ma le ha scritto una cartolina, da un lato una foto, 2 bimbi che si strusciano il naso, dall’altra, un testo molto formale, come si usava al tempo. Mia nonna la conserva come oro; poche parole, “Auguri, tuo padre Lorenzo, saluti e baci”.  Mi stupisco di cosi tanta semplicità in un contesto cosi orrendo come può essere una guerra o il fatto di non veder tua figlia venire al mondo, eppure sta tutto li, se ci pensate, poche parole, forti, da un altro mondo quasi, lui sapeva che comunque sia, ad ogni costo sarebbe tornato, avrebbe abbracciato la bimba.
A mia nonna piace sottolineare il fatto che il timbro di quella sbiadita e malconcia cartolina è proprio russo, per lei è una conferma che è tutto vero, autentico; quando ne parla si percepisce sempre una forte sensazione di amore e se si indaga le vengono gli occhi lucidi, ma non piange, gli anziani non piangono spesso.

L’apice della commozione lo raggiunge sempre al medesimo punto, quando parla del suo “ritorno”.
Dice che nessuno l’aveva riconosciuto, come biasimarli, il mio bisnonno è tornato dal gelido inverno russo a piedi (cosi dice il racconto, è ovvio che un qualche mezzo di fortuna l’avrà pur trovato, ma non roviniamo l’atmosfera), è stato subito portato in ospedale per lo stato penoso in cui si trovavano i suoi piedi e le sue mani, quasi alla cancrena.

L’altra parte di questo mini-riassunto che a mia nonna piace ricordare si riferisce ad una giornata particolare che, lei dice, ricordare come fosse ieri: giocava nell’aia davanti a casa quando le si avvicinò a piedi un signore con vestiti stracciati, barba nera incolta e una borsa gigante, le chiese con aria stanca: “è qui che vive Lorenzo?“; mia nonna li per li non capì e corse a chiamare il padre, l’abbraccio tra i due uomini mi ha detto esser durato mezz’ora, il resto della giornata lo passarono a rievocare le storie della guerra vista dalla trincea gelata, di quando persero il loro amico trucidato e di quando la guerra finì.
Stettero a parlare fino a notte inoltrata, al termine si promisero di rincontrarsi ma mia nonna afferma, con una sicurezza insolita, di non averlo mai più rivisto.
Il mio bisnonno è tornato da lontano, con la voglia di vedere per la prima volta sua figlia, non ho mai avuto l’onore di parlagli direttamente (o almeno, non lo ricordo), avrei forse avuto troppo da chiedere, è venuto a mancare in questi giorni 23 anni fa, quando ero piccolo, ma con questo post, penso di volergli rendere un semplice umile omaggio

La Teoria del Rullino Fotografico

Penso di essere un soggetto con spiccata e lodevole iniziativa nel fare quello che, solo due-tre giorni prima, non avrei nemmeno considerato di intraprendere nella mia vita; l’aver partecipato in tenera età ad un campo estivo rientra tra queste casistiche.

Io sono schiavo di una totale inettitudine per la vita da campo, so montare una tenda in poco tempo, so forse forse contenere un fuoco, so incidere il legno, ma sopravviverei circa mezza giornata nella wild mountain, questo è certo.
Dicevo, con questo spirito di avventura che mi caratterizza, partecipai con rinnovato entusiasmo a questo campo; oltre alle improbabili docce in un fiume gelato, agli improponibili pasti a base di fuliggine e alle indimenticate notti passate in una tenda posta in pendenza, ho un ricordo molto forte di un particolare che esula dal contesto “avventuroso”.
Eravamo tutti piccoli, bambini, a memoria vi parlo di circa 16 anni fa e ci trovavamo disposti in cerchio in una radura completamente contornata da pini altissimi; uno dei capi prese la parola e ci fece un discorso molto lungo, ora le parole esatte sono nella mia testa più nebbiose di una mattinata invernale padana ma ricordo molto bene il concetto chiave:
“Il nostro cervello è la più bella e complicata macchina fotografica esistente.”
Ricordo quindi lo sguardo comune dei miei amici accanto a me, abbastanza sorpreso quanto incredulo; vedendo la perplessità fissa nei nostri volti il capo continuò il discorso lanciando una sorta di sfida:
“fissate per 30 secondi un punto nel panorama e pensate intensamente a cosa vi fa provare, poi chiudete gli occhi continuando a pensarci, riapriteli solo quando siete sicuri che la cosa è diventata vostra”.
Quel giorno guardai la punta di 3 pini, erano i più alti, quello al centro era maestoso e gli altri due leggermente più bassi, il cielo era azzurrino tenue e i tronchi si confondevano con la foresta posta dietro, l’erba verde intenso e la sensazione percepita era quella di un fresco tepore (si, “fresco-tepore”… già da piccolo vendevo ossimori).
Ad oggi, riguardando il tutto, mi rendo ovviamente conto di non aver compiuto una magia fissando mentalmente un momento che ricordo a distanza di 16 anni, il tutto nasce e si ricostruisce probabilmente attorno al ricordo del contesto ma, dentro di me, in quel giorno ho scattato una foto col cervello e la ricordo come se fosse vera, materiale.
…chissà quante pose prevede il nostro rullino.

Paradigma di Vita

Io da bambino ero un soggetto borderline, lo ripete in continuazione mia madre; eppure facevo cose come tutti i bimbi comuni: progetti con le Lego che Calatrava in confronto è un designer di battiscopa, leggevo Topolino come se fosse il New York Times, giocavo col pallone di spugna nel garage di casa ed esultavo ai gol come fossi Messi, adoravo le macchinine e facevo gli spettacoli organizzati con mia cugina e mio fratello.
Eravamo gente avanti noi, a nove anni già presentavo telegiornali, facevo pubblicità, suonavo flicorni contralti rubati per l’occasione a mio padre e se chiedete in giro, le VHS di queste performance “live” sono più quotate delle bobine originali di Psyco di Hitchcock.
Da piccolo ero una sorta di cartoon-addicted, mi sono sempre sparato cartoni animati come se piovesse a Londra, il mio preferito era forse Alice nel paese delle Meraviglie, videocassetta registrata da RaiUno con annessa pubblicità, nemmeno la dignità di averlo originale.
Oltre a questo adoravo “Il giro del mondo in 80 giorni”, era una vhs di quelle che si trovano nei giornali, un po’ “taroccate” a 2 spiccioli, che duravano tra l’altro pochissimo.


Mi piaceva che questo personaggio, bruttino e con la voce a tratti insopportabile girasse cosi tanti posti, ne son sempre stato profondamente affascinato, cosi come per Alice, adoravo il fatto che vivesse un sogno infinito con creature fantasmagoriche.
Ci segnano molto i cartoni che vediamo da piccoli, dopo anni riusciamo a ricordarne particolari incredibili, poi arriva il giorno in cui, per sbaglio, alla tv becchi la prima visione del pagliaccio “It” e capisci che nulla sarà più come prima. La vita è in salita, è ora di crescere.

Mind the Place

Pensavo oggi all’importanza delle cartoline cartacee, si, quelle che per molti sono oggetti vintage appartenenti ad un altra epoca o inutili perdite di tempo.
A me piacciono le cartoline, non tanto per le scritte che portano con se, ma per il ruolo stesso del pezzo di cartoncino. Mi spiego meglio: un amico,conoscente,ragazza,parente se ne va lontano, pensa per un secondo, anche per una frazione, di mandarti un pensiero, alla fine questo in un modo o nell’altro ti arriva, scritto a mano, non con la tastiera, e c’è anche solo un “qui tutto bene, Ciao!” e relativa firma. Ora prendete questa cartolina, posatela in un baule e aspettate 10 anni….

…ecco..ora riapritelo, cartolina da Rimini, oggettivamente un po’ triste e malinconica, con immagini insipide dei *Bagni Paola 73 Rivazzurra, dietro il saluto banale del migliore amico, con la sua firma che non è esattamente come una firma automatica delle mail. A quante cose pensate?
La cartolina inviata assume valore per il futuro, non per l’immediato, è questo che la gente non capisce, per questo tutti pensano che sia roba vecchia, non han capito che è una delle tante chiavi per la memoria.
Hemingway non immaginava una vita senza memoria, per lui era fondamentale, il suo “capitale”, e son d’accordo, una cartolina fa da “pass” per certi ricordi, non per tutti, ma per un particolare tipo, altri oggetti possono avere lo stesso effetto ma questi son speciali, hanno una loro storia aggiuntiva più o meno lunga, più o meno lontana, più o meno importante.

se ci pensate, fatevi mandare una cartolina.
 
*nulla di personale contro i Bagni Paola 73 di Rimini, era li che era andato il mio amico
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